Cosa mi porto a Berlino di questi sette giorni a Londra? Intendo, a parte un barattolo di Spam (era da tempo che volevo assaggiarlo) e cinque spugnette per piatti Tesco, provate a casa della nostra ospite (“Ma no, dico sul serio, mi piace lavare i piatti, lo faccio volentieri: mi rilassa”) e subito riconosciute come le migliori del mondo.
La sconcertante esperienza di ben cinque persone in una serata che mi rivolgono la parola in un pub. Una ci provava abbastanza chiaramente, anche se mi ha parlato tutto il tempo di Videocracy e October country, le altre non so. Comunque, a Berlino non mi è mai successo (ora esagero un po’). Ed è buffo, perché la coinquilina tedesca della nostra ospite qualche giorno dopo mi diceva che a Berlino è così facile fare due chiacchiere con degli sconosciuti al bar, mentre a Londra ognuno sta sulle sue. E non è la prima a cui sento dire questa cosa.
La conoscenza della terza ragazza del Mecklenburg-Vorpommern (land tra i più sfigati della ex DDR) che, caduto il muro, è diventata una turbocapitalista super ambiziosa, al limite della spietatezza.
L’incontro, nella Lee Valley, con degli splendidi cavalli da soma con dreadlock naturali.
La passeggiata del primo gennaio lungo il Regent’s Canal con le chiatte abitate.
La scoperta casuale del delizioso (aggettivo scelto non alla cazzo) Geffrye Museum e quella meno casuale dei quartieri di Acton, Clapham, Holloway e Highgate con il suo cimitero.
La constatazione che, se Berlino si sta londonizzando (lo dico da un paio d’anni), Londra si sta berlinizzando. Se a Mitte, Kreuzberg e, ahimè, Neukölln si incontrano sempre più spesso Shoreditch fuckers, a Hoxton e Stepney ho visto un sacco di Kreuzberger typen e in un ristorante di Hackney dove la nostra ospite è solita portarci a mangiare tailandese sembrava di stare al Wild at Heart con tutti quei rockabilly sorridenti e simpaticamente cheap.

Ale