Dico “accidentalmente” perché il mio punto è un altro. Il mio punto è condividere con voi un momento di vita berlinese non splendente. Ecco qua:

L’orrore di stare tre quarti d’ora in piedi, col mal di schiena, in un giroscale umido e freddo assieme a persone che tossiscono e si soffiano il naso a ripetizione, in attesa che apra l’ambulatorio dei tuoi dottori di Kreuzberg, che, tranne uno o forse due, trovi tutti antipatici e per niente di conforto.

Ci sarebbe da disperare, urlare e fuggire non sai nemmeno tu bene dove, anche perché poi fuori ti aspetta un freddo umido che ti corrode le ossa.

E invece no, non urlo e non fuggo. Uno perché non faccio di queste cose plateali e due perché per non disperare leggo un bellissimo articolo di Primo Levi, pubblicato su La Stampa nel 1984, dove lo scrittore racconta le sue prime esperienze con il computer. Personal Golem, si chiama. Leggo e solo così riesco a non urlare e ad aspettare in quel luogo ostile e orrendo di essere ricevuto da chissà quale dei dottori mi assegnerà la slot machine del mio ambulatorio. Che poi manco avrei le forze di urlare o di scappare: oltre al mal di schiena, ho anche la nausea, il raffreddore e la tosse. E infatti anch’io, come gli altri che aspettano con me, mi soffio il naso e tossisco. E anch’io sono antipatico… spesso.

Mentre leggevo ero altrove, ero un altro: un vecchio che impara a usare uno strumento nuovo; che prima resiste e poi si adatta; che prima è ostile e poi capisce, trova la sua chiave di lettura, accetta di non capire tutto, sperimenta, scopre con piacere cosa di bello si può fare con questo nuovo attrezzo, pensa alle cose che gli mancano del vecchio metodo di scrittura. Ero sempre in piedi su queste scale inospitali tra due pianerottoli, ma ero anche in uno accogliente studiolo italiano di trent’anni fa, forse seduto o forse in piedi vicino a questo vecchio scrittore simpatico. Sorridevo, di tenerezza e di rispetto per una mente così sveglia e uno stile così elegante. Per un attimo ho anche pensato alla tromba delle scale di quel palazzo torinese dove Levi morì, ma è stato un pensiero che se ne è subito sparito.

La visita poi è andata meglio del previsto. C’era una dottoressa nuova, che si è presa un bel po’ di tempo per ascoltarmi.