Martedì scorso ho assistito a un reading di Karen-Susan Fessel tenutosi nella libreria lesbica Anakoluth, al piano terra del centro commerciale Berlin Carré di Karl-Liebknecht-Strasse. (La cameriera del bar Tropicana, al primo piano, mi ha detto che il Berlin Carré fu inaugurato nel ’93. Come l’Europa-Center di Breitscheidplatz, appare irrimediabilmente antiquato. L’estetica dello shopping invecchia tremendamente in fretta, come la carta moschicida. Non so se sia il fascino dell’impolverato ma io l’ho trovato molto confortevole il bar Tropicana, dove ho bevuto un caffè e mangiato una fetta di torta di mele prima del reading. Anche la cameriera era molto simpatica e mi ha fatto star bene.)
Stretta tra un calzolaio, un supermercato e un’agenzia di viaggi, in una libreria di nicchia piccola e affollata Karen-Susan Fessel ha letto dal suo ultimo libro “Jenny mit O” (Jenny con O): la storia di una sedicenne di Rostock che, dopo vari tentativi di fuga, abbandona definitivamente la casa dei genitori e si trasferisce a Berlino. “Cosa significa transgender?” chiede Jenny alla barista del Roses di Oranienstrasse una sera. “Con transgender si intende una persona che non si sente né maschio né femmina, bensì qualcosa di diverso. Qualcosa a metà, qualcosa in più.” Con questo romanzo la Fessel, autrice di numerosi libri per ragazzi e per adulti, ha voluto trattare un tema che le sta a cuore da sempre, il transgenderismo, dalla prospettiva di un’adolescente. Jenny scopre di voler/poter sostituire la “e” del proprio nome con una “o”.
Dal pubblico, costituito da sole donne, eccezion fatta per me, il baffuto editore del Querverlag e una persona di sesso imprecisato, sono venute molte domande dopo la lettura, soprattutto riguardanti i riti e le modalità della creazione di storie e della scrittura. Due risposte della Fessel hanno confermato la simpatia che provavo istintivamente nei suoi confronti e che mi aveva spinto a partecipare al suo reading (e a non fare marcia indietro appena arrivato in libreria di fronte alla diffidenza un po’ ostile con la quale mi aveva accolto la strappacazzi alla cassa):
Una signora di mezza età ha accusato la scrittrice di cadere in troppe occasioni nel fango puzzolente dello stereotipo. Lei ha risposto di non temere i cliché e di trovarli del tutto accettabili in molte occasioni. I cliché si fondano sulla realtà e la realtà ne è piena, quindi perché evitarli con troppa veemenza?
Una ragazza ha sollevato la questione del linguaggio politicamente corretto: aggettivi e sostantivi asessuati o multisessuati per non compiere peccato di fallocentrismo. La scrittrice ha dichiarato che le soluzioni oggi in uso per evitare il generico maschile (come la “i” maiuscola nei plurali: ArbeiterInnen, che è la versione istituzionalizzata – alcuni giornalisti la usano – del nostro asterisco: ragazz*) non le piacciono. Quando sente che l’uso di forme come queste appesantirebbe inutilmente o renderebbe ruvida la narrazione, lascia perdere il p.c. e, per sciogliere l’asperità, si piega al diktat grammaticale patriarcale usando il maschile generico.
Ora mi leggerò “Was ich Moira nicht sage”.
Ale