Schiffbauerdamm > Bahnhof Friedrichstraße
28 giovedì Feb 2013
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in28 giovedì Feb 2013
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in27 mercoledì Feb 2013
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inBassa Sassonia: il commissario di polizia S. K. e il suo compagno.
Via Spiegel.tv
25 lunedì Feb 2013
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inBene. Italiane, italiani e italian* genderqueer hanno parlato. Grazie. Prendiamo atto del vostro voto. Ora, l’Italia si trova in un momento difficile: vediamo di non fare i deficienti. Abbiamo bisogno di riforme: facciamole. L’Italia è spaccata in quattro? Si forma il governo, anche un bel governo di unità nazionale se necessario, e al Senato ognuno vota secondo coscienza, per il bene del Paese, e senza rompere troppo i coglioni. Almeno ci si prova, cazzo!
25 lunedì Feb 2013
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in… sul reparto traduzioni dell’agenzia per la quale ho lavorato per oltre due anni. Ne ho già parlato in un’altra occasione: è stata un’esperienza molto positiva e mi mancheranno un sacco queste 20 ore settimanali nei loro uffici di Taborstraße. I testi che ci davano da tradurre facevano cagare: ripetitivi (con qualche variazione spesso più brutta delle frasi standard), scritti male, tematicamente poco più interessanti di un elenco telefonico. Ma tradurre quelle frasi sempre uguali, con l’ausilio di un cosiddetto CAT tool, aveva un effetto stranamente positivo sul mio cervello, tipo ginnastica mentale: era per me come recitare un mantra, mi riattivava i neuroni e poi a casa riuscivo a elaborare più efficientemente i testi più complessi che sono solito tradurre o scrivere. Sarà che a me le cose ripetitive e senz’anima danno euforia, come osservare la lavatrice o l’uovo sbattuto di qua e di là dall’acqua che bolle nel pentolino. E mi esalta spuntare le cose dalle liste: fatto, fatto, fatto, fatto, fatto, fatto…
Fatto sta che questo flusso continuo di stronzate da tradurre tipo catena di montaggio, come ho già detto, a marzo finirà. La collaborazione con l’agenzia per me, libero professionista, in parte continuerà, a differenza che per i colleghi che erano assunti, ma molto probabilmente lavorerò da casa e molto saltuariamente. L’agenzia ha perso il suo più grosso cliente e d’ora in poi, almeno finché non troveranno un cliente che garantisca un flusso di lavoro altrettanto consistente, si farà viva al massimo un paio di volte al mese.
Ma poi il fatto di uscire di casa un giorno sì e un giorno no, abbandonare la mia scrivania e lavorare con dei colleghi in real life (anche se non away from keyboard), con tutti i relativi riti da uffico: impagabile! La vita di ufficio ai tempi di Manfredo alla fine mi stava uccidendo, ma lì si trattava di 40 ore settimanali, con straordinari regolari, in un ambiente estremamente stressante. La sera e nel fine settimana non riuscivo a liberarmi dal pensiero del lavoro (Lupo ve lo può confermare). In questa agenzia era diverso. Come mi diceva la settimana scorsa V., collega spagnolo di Palencia appassionato di Leopardi, nel suo italiano poco più sgangherato del mio: “Di solito non riesci a non pensare al laboro nella tua vita privata, mentre che qui invece puoi pensare alla tua vita privata mentre labori”. La combinazione 20 ore in ufficio + tot ore di lavoro solitario a casa era per me ideale. L’altro giorno la collega catanese, assunta e licenziata, mi diceva che lei, per esempio, da marzo alternerà traduzioni da casa e interpretariato itinerante. Ecco, a me l’idea di venire catapultato di tanto in tanto dalla mia pulciosa scrivania alla Camera di Commercio di Francoforte per una tavola rotonda con delegazione della Regione Lombardia, oppure alla Fiera del Francobollo di Colonia per cinque giorni di incontri con emeriti sconosciuti che non rivedrò mai più, non piace molto. A parte il fatto che non sono un interprete (parlo molto peggio di come scrivo). No, no: preferivo di gran lunga la mia agenzia odiata/amata, e i miei colleghi!
E che colleghi! La valchiria, la francese sboccata, la francese logorroica che ogni tre mesi prende e va in Asia, l’irlandese menefreghista e super sensuale, il pittore greco complottista, la portoghese tra due fuochi, la galiziana tongue-in-cheek, il poeta/modello inglese barbuto che sembra un re assiro, la madre single “profondamente tragica” e la madre single super sensuale, l’olandese bello e buono, l’olandese che fa 2.000 battute al secondo e ogni mezz’ora, per non annoiarsi, crea una nuova macro, l’australiano che sta tutto il tempo su Gayromeo (chaunteuse intrappolata in un corpo da rugbista), la russa impeccabile e la russa rubata al cinema francese, le italiane rock ‘n’ roll, lo svevo flower power e il cantastorie baltico che, se potessi, mi porterei a casa e me lo metterei sul comodino (ma solo se mi spiegano come spegnerlo quando ho bisogno di un po’ di silenzio).
Ok, sto tacendo le cose brutte — gli intrighi, il capo del personale rubato alla Stasi, i compensi non stratosferici, il dover lavorare con la musica in cuffia per non morire di noia e frustrazione o per non sentire e, di conseguenza, voler uccidere il collega italiano vitellone –, ma al momento degli addii si usa così.
Foto? Foto. Giusto un paio.
La collega neozelandese in realtà è una musicista, as it turns out. A differenza del suo amico e collega australiano, lei non l’aveva mai detto in giro. L’abbiamo scoperto dopo che si è licenziata. Qui la vediamo, assieme all’altra metà del suo duo, nella cantina di una bettola di Kreuzberg.
Io e la capa del mio team fuori dalla Spiegelsaal della Clärchens Ballhaus che ospitò il famoso bacio di Tino Sehgal (altro posto dove vorrei vivere).
Il giroscale del palazzo che ospita gli uffici dell’agenzia, prodigo di sorprese come ogni giroscale berlinese che si rispetti.
Baffo adesivo regalatomi dall’ex content manager e secondo coordinatore capo del reparto traduzioni.
Chiudo con la cartolina passivo-aggressiva (a sin.) con guglia dolomitica interpretabile come “gesto del dito medio alzato”, emblematica del mio rapporto conflittuale con l’ufficio. A destra nella foto vediamo la cartolina riparatrice spedita durante il mio successivo soggiorno in Italia: “Ancora Dolomiti, questa volta per bene (ovvero senza rocce ambigue)”. Tipica del mio odioso atteggiamento “lancia il sasso e nasconde la mano”.
24 domenica Feb 2013
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inA volte basta una passeggiata da Neukölln a Mitte e ritorno.
Reichenberger Straße, vicino all’LPG. Written street art, direi.
# Grido di protesta
Un mio ex mi dà della “frigida” davanti a dei nostri amici mentre fumiamo fuori da una kneipe perché per un periodo non ho avuto voglia di stare con lui. Si ride.
Werderscher Markt. Nuovi appartamenti di lusso stronzi in costruzione. Piscina con bordo a sfioro e vista sulla cupola della Sankt-Hedwigs-Kathedrale.
Collettiva per la riapertura della galleria EIGEN + ART (sede di Augusststraße 26) dopo la ristrutturazione. Se avessi un paio di centinaia di euro che mi avanzano mi comprerei subito questa scultura di Neo Rauch. Terracotta e ottone, se non ho capito male. Probabilmente un bozzetto di questa Die Jägerin (la cacciatrice) del 2011.
Sempre da EIGEN + ART: Stella Hamberg, Das Mädchen (la ragazza), bronzo, 2010.
Ancora EIGEN + ART: Christine Hill.
Unica foto scattata sulla via del ritorno. Due paia di gambe fuori da una tavola calda in Große Hamburger Straße.
20 mercoledì Feb 2013
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inDa AIREliano, anche questa volta ho votato per corrispondenza. Ho spedito le schede ieri pomeriggio: devono infatti arrivare in ambasciata entro domani alle 16:00. Ringrazio l’adorato dμ, Lupo, M., EEP e Kartch per il supporto morale e l’assistenza nella scelta dei candidati da “preferire” (nella ripartizione Europa abbiamo due preferenze da esprimere): senza di loro non ce l’avrei fatta.
Questi i volantini elettorali che mi sono arrivati per posta nelle ultime tre settimane. Li posto in ordine di arrivo.
Dei partiti che possiamo votare noi AIREliani tedeschi, mancano all’appello: SEL, Partito Comunista, Rivoluzione Civile (Ingroia) e Fare per Fermare il declino.
17 domenica Feb 2013
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in… mi hanno dato del “dagherrotipo” e della “Susanna Tamaro di Neukölln”. Adoro!
16 sabato Feb 2013
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inOvvero: narcos, campagna francese, a swingin’ hip cat that’s been around e 350 minuti di Jane Campion.
Narco Cultura di Shaul Schwarz (USA, 2012) – Due documentari paralleli anternati: da un lato, il regista segue un investigatore della polizia scientifica di Ciudad Juárez e ci mostra la sua quotidianità fatta di morti ammazzati dai narcotrafficanti, paura e corruzione croniche, omertà e una fragile speranza di riuscire prima o poi a uscire da questo incubo, lavorando e concentrandosi sulle poche cose belle e buone rimaste; dall’altro, ci propone il ritratto di un protagonista della scena narcocorrido di Los Angeles, dei ragazzi (e adulti) che ascoltano questa musica e dei pezzi di merda che la ispirano. La parte che più mi ha colpito è quella su questo genere musicale. In due parole, si tratta di una specie di narco-gangsta su base tradizionale messicana che canta le gesta dei trafficanti di droga sudamericani e dei sicari al loro soldo. La cosa più tragica è che questi criminali vengono glorificati da molti estimatori del genere come nuovi Robin Hood. Al regista, durante la Q&A, avrei voluto chiedere (le domande, come sempre in questi casi, mi vengono una volta uscito dal cinema) più o meno questo: siamo d’accordo sul fatto che è assurdo e controproducente cercare di proibire l’ascolto di questa musica: ha anche un importante valore catartico, può fungere da valvola di sfogo di certi istinti… e magari questi cresceranno pure più sani degli adolescenti che ascoltano gli Smiths; detto questo, quanto è realistico sperare di riuscire a proporre dei modelli alternativi, almeno agli ascoltatori più giovani? O non resta che augurarsi che si stanchino presto di questi eroi brutti e cattivi e imparino ad apprezzare l’eroismo uncool di chi li combatte? Di certo non si può proporre un film come questo, per quanto sia un ottimo film, o un eroe come l’investigatore timido di Ciudad Juárez a chi ha bisogno di sangue, droga, camicie con cuernos ricamati e Hummer gialli nei quali farsi seppellire nel cimitero monumentale per narcos di Cualicán.
Le cousin Jules di Dominique Benicheti (Francia, 1973) — Il Jules del titolo viveva nei pressi di Pierre-de-Bresse, in Borgogna. Faceva il fabbro e aveva una fattoria. Il regista l’ha seguito per 4 anni, dal 1968 al 1971, e ha registrato una serie di momenti della sua giornata di lavoratore ottantenne, scandita da ritmi probabilmente sempre uguali da anni, con gesti attenti e sapienti e un senso dell’economia per cui non si butta via neanche la goccia d’acqua che cola dalla pentola appena intinta nel secchio. Vediamo Jules mentre lavora il ferro — accende la stufa per riscaldare il capanno dove lavorerà, prepara la fucina dove forgerà, credo, una cerniera per porta, e poi inizia a battere, scaldare, battere, scaldare, e il regista ci mostra cosa fanno le mani di Jules, la sua faccia, il mantice rattoppato con cui ravviva il fuocherello, il martello, di nuovo le mani e la faccia, ecc. — e mentre si concede una pausa quando la moglie viene a fare il caffè — vediamo Félicie che prende l’acqua dal pozzo (manovra la carrucola in due modi distinti per calare il secchio e per recuperarlo), entra nel capanno del marito, rabbocca il serbatoio della stufa, mette a scaldare l’acqua per il caffè, macina il caffè, … Mi rendo conto che mi mancano le parole per descrivere questo mondo contadino, che è mio solo come racconto della mia unica nonna contadina o come oggetto lucidato appeso nella cucina della mia prozia o nelle trattorie delle mie parti (come dimenticare, a questo proposito, la mónega vista in un agriturismo di Tarzo?). Comunque sia, Le cousin Jules è un film ipnotico, che ti costringe a osservare e ascoltare con attenzione ogni scena e ogni movimento (io sono riuscito a distrarmi comunque, ma non c’entra) e ti proietta in un altro mondo, anche se molto diverso rispetto a, che so, The Matrix. Ecco, per cercare un paragone tematicamente e/o socio-visivamente (?) più prossimo, più come La bocca del lupo di Pietro Marcello o Le quattro volte di Michelangelo Frammartino. A proposito di Le quattro volte: anche quello è un film che parla di un mondo “arcaico”, ma lo fa con tutta una sovrastruttura intellettuale abbastanza pesante, almeno quanto questo groviglio di frasi che sto producendo. Non voglio parlar male di Le quattro volte, che mi è piaciuto moltissimo (soprattutto la polvere in chiesa, il cane e l’Ape parcheggiata in salita e l’episodio della capretta); volevo semplicemente dire che Le cousin Jules non parla per metafore o simboli. E, che io sappia, il regista non voleva parlare di Pitagora. Voleva semplicemente farci vedere come si viveva nella campagna francese di fine anni Sessanta, inizio Settanta. Nota conclusiva [ATTENZIONE! SPOILER]: come viene raccontato (per assenza) quello che senza dubbio è l’evento più importante di questa porzione di vita di Jules, vale tutto il film. Seconda nota conclusiva: in omaggio alla minestra che prepara Jules dopo essersi fatto la barba e aver spazzato i pavimenti, vi regalo una ricetta dal mio libro di cucina di Falcade (edito nel 2008 da Insieme si può). Quando si dice la cucina povera dei nostri nonni…
PAPAZÓI DA LAT. Ingredienti: farina bianca, acqua, latte, riso. Preparazione: mettere della farina bianca e dell’acqua fredda in una terrina. Mescolare il composto in modo che si formino dei grumi. Far bollire in una pentola dell’acqua e del latte in pari quantità, salare e quindi versarvi i grumi di pasta. A piacere aggiungere del riso. Lasciar cuocere per 15/20 minuti e servire.
Portrait of Jason di Shirley Clarke (USA, 1967) — Interessante come documento storico, molto toccante, a tratti divertente, ma mi ha fatto un po’ l’effetto di quei tizi che al bar, ubriachi, cominciano a raccontarti la loro vita e non la smettono più. Very intense, come si dice. Prima della proiezione, Amy Heller ci ha brevemente illustrato la storia del restauro di questo “capolavoro del cinema indipendente statunitense” portato avanti per anni dalla sua Milestone Films (non il restauro del MoMA del 2000!). Qui spiega il tutto per esteso in un video, con l’emozionante scoperta che la pellicola originale si trovava presso il Wisconsin Center for Film and Theater Research, catalogata come “scene tagliate”. Come ci faceva notare Heller, il film, che ritrae un afroamericano omosessuale senza peli sulla lingua, è uscito prima di Stonewall; dopo il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965, ma prima della sentenza della Corte superema degli Stati Uniti che dichiarò incostituzionali le leggi che proibivano i matrimoni interraziali. Non so: mi sembra che si parli dello stesso anno in realtà. Fatto sta che il film dev’essere stato una bomba in quegli anni. Diceva Heller che alla prima tra gli spettatori c’erano personaggi come Tennessee Williams, Andy Warhol (ah, beh), Norman Mailer e Arthur Miller. Comunque, come c’era da aspettarsi, il film non ha poi riempito le sale. Ultima cosa: [ATTENZIONE! SPOILER] non mi è piaciuto per niente il crescendo finale. L’ho trovato sadico. Nel corso del film, dove davanti alla macchina da presa c’è sempre e solo Jason, due voci fuori campo gli fanno delle domande, tutte del tipo: e raccontaci di quella volta in cui… Una delle due voci è la regista, l’altra è l’attore afroamericano Carl Lee, amico di Jason. Ecco, alla fine, dopo oltre 10 ore di riprese, quando Jason è ormai a pezzi, ubriaco marcio, Lee lo pungola con una domanda sulla loro amicizia, che non ho capito bene, e a quel punto Jason, che fino ad allora aveva sempre riso (anche raccontando dei suoi genitori violenti… tra parentesi, la parte più bella del film), si mette a piangere. Lee gli rinfaccia qualcosa, un episodio di cui Jason si vergogna e si pente. Il fatto che l’amico glielo ricordi, lo fa sentire un verme e lo fa piangere. Dopo un lungo silenzio, con le dita premute sugli occhi lacrimanti, Jason tira su col naso, sospira e poi, digrignando i denti, dice: “Sì, sono stato uno stronzo, sono uno stronzo, e allora?”. Poi si calma, la sua faccia si svuota di ogni espressività, e dice: “Hai ragione. Basta”.
Top of the Lake di Jane Campion e Garth Davis (Australia/Nuova Zelanda, 2012) — Miniserie poliziesca in sei puntate ambientata in una cittadina neozelandese. [ATTENZIONE! SPOILER, anche se discreto] Come in quella serie televisiva che si cita sempre in questi casi, la comunità del paese dove si svolge l’azione è incestuosa (qui di più), omertosa e criminale. In questo caso però non ci sono stronzate paranormali (ma il bello di Twin Peaks è anche quell’accumulo disordinato di stronzate paranormali): c’è giusto un pizzico di magia indigena della natura — il cuore del demone in fondo al lago, la mamma animale che difende il suo cucciolo (con l’ausilio di un’arma da fuoco), il muschio sensuale del bosco (reso sensuale anche grazie all’uso di sostanze psicotrope sintetiche), la Montagna con la emme maiuscola –, qualche riferimento biblico visto da molto lontano (dalla Nuova Zelanda, per la precisione) e una Holly Hunter santona anti-santona da prendere e mettere su un trono e incoronare regina dell’universo (ma non ce la faremmo mai, perché GJ, ovvero il personaggio che interpreta, è uno spirito libero come non se ne vedevano da anni). Per certi versi questa serie mi ha ricordato anche Forbrydelsen, ma solo per un paio di temi affrontati, non certo per il tono né per lo stile. Per il resto è pura Jane Campion. Non so che altro dire per il momento. Ci sarebbe parecchio da riflettere sulle donne di Top of the Lake (soprattutto la detective Robin Griffin e sua madre) e, in parte, anche sugli uomini: [ULTIMO SPOILER!] i due cattivi, per esempio, sono molto complessi; complessi non è la parola giusta… complessi sono i personaggi di The Wire; questi sono più lineari, anche se altrettanto vivi; ecco, limitiamoci a dire che danno di che pensare. In chiusura, un’annotazione marginale extra film, una dichiarazione d’affetto e due richieste:
– Non sono sicuro di voler sapere cosa pensa di Top of the Lake, ma mi ha sicuramente fatto molto piacere vedere durante la prima pausa Enrico Ghezzi, con la sua maglietta nera e i suoi capelli tempestosi, che parlava in piedi, gesticolando bonariamente, con un tizio seduto in prima fila. Era una scena che non vedevo dalla mia ultima Mostra del cinema di Venezia, ovvero dal 1997
– All my love to Jamie, l’amico di Tui che non parla con gli adulti. L’emo più cazzuto che abbia mai visto al cinema
– Voglio anch’io un compagno maori che mi spalma d’olio e, il tardo pomeriggio, sta seduto in cucina a fare un puzzle! E voglio una T-shirt con effigie e/o citazione di GJ, now! Anche se, insisto, lei non gradirebbe affatto la mia venerazione
11 lunedì Feb 2013
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inA casa dei miei, il giorno prima di rientrare a Berlino. È mattina. Sono da basso, nell’ex appartamento della nonna, inquieto per la partenza. Corro alla porta, apro. Un tizio magro, capelli corti, un trucco leggero sulle tonalità del fucsia, con qualche brillantino, mi saluta come se mi conoscesse e mi dice: “Siamo un gruppo di ragazze del paese. Promuoviamo uno stile di vita fondato su una maggiore visibilità, per la piena consapevolezza della propria identità e una partecipazione attiva, senza nascondersi, alla vita del paese…”.
È una bella giornata di sole, dal quale il mio visitatore si ripara con un ombrellino di carta. Sullo sfondo, il giardino è fiorito. Non ricordo se abbia suonato o bussato. Lo osservo e mi chiedo come sia arrivato alla porta — il cancello spesso viene lasciato aperto la domenica mattina. Mi sembra di riconoscerlo vagamente come il fratello del gestore di uno dei bar di via Dante. Gli dico: “Sì, ecco, i miei lo sanno, ma…”.
“Sì, lo sappiamo! Ne parliamo spesso su Facebook: vengono a trovarti un casino a Berlino i tuoi!”.
Sorrido. “Sì, in effetti…”. Ne parlano su Facebook?
“Tu per noi sei una specie di sorella maggiore…”.
No, aspetta: come? Allora questo non può essere il fratello di ***. “Ma, scusa, tu quanti anni hai?”, gli chiedo.
“Ah, anni! Qualche minuto al massimo”.
Rido. “Il battito d’ali di una farfalla”.
Detto “farfalla”, compaiono quattro o cinque ragazzi, anche loro molto colorati, retro playful.
“Ecco, queste sono le altre”, dice il tizio con l’ombrellino.
“Prego”, dico invitandoli a entrare. Mi stanno subito simpatici. Ho un po’ paura, ma mi lascio trasportare dal momento. “Siete usciti da Party Monster?”, chiedo al ragazzo con il maglione a righe orizzontali che mi si para davanti. Ridono.
“Benvenuti nel mio salotto… che non è mio”, dico facendoli accomodare sul divano floreale della nonna, ingiallito dal fumo delle sigarette di quando mio padre fumava. Mente sto per andare in cucina a prendere qualcosa da bere, noto che la ragazza vestita da b-boy, con i piedi sul tavolino e il mezzo caschetto skin ondulato, è la figlia di ***. “A te ti conosco! Sei la sorella di ***”. Mentre mi sta rispondendo mi sveglio. Penso: wow! che cazzo di sogno! questo devo scriverlo. Mi giro sull’altro lato e mi riaddormento. Il sogno continua.
Usciamo tutti di casa. Non siamo più nel mio paese. Siamo in una strana America cimiteriale, tipo Savannah (Georgia). Non ricordo dove siamo diretti. Io e il più carino del gruppo scendiamo la strada anticipando gli altri, che si fermano a parlare davanti alla porta di casa, che non è più la casa dei miei genitori. È la casa del mio ex di Swansea? Il più carino ha i capelli neri e un paio di pantaloni da ginnastica turchesi. Mi prende e mi porta in un cortiletto recintato, con delle colonne ingrigite, tanta edera e delle lance di ferro battuto arrugginite, e da lì il sogno degenera in un banalissimo sogno erotico.
09 sabato Feb 2013
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inDue settimane fa ho visitato per la terza volta uno dei miei musei berlinesi preferiti: il Bode Museum. Sorvolando sulla mia perversa ossessione per il revivalismo ottocentesco, lasciatemi dire che è un museo davvero meraviglioso. Parlo del contenuto, non del contenitore. Quando lo visitai con mia madre la prima volta fu una vera rivelazione: soprattutto la scultura lignea dipinta (gotica, rinascimentale e barocca) fu per me una splendida scoperta. Giusto per darvi un’idea, e per evitare di usare altri superlativi: qui la galleria fotografica di un visitatore (un po’ inquietante il suo sito, tra parentesi) e qui quella di un altro (terza foto dall’alto: una delle mie statue preferite), qui un dettaglio della magnifica Madonna boccoluta di Dangolsheim, qui una Madonna sedes sapientiae del 1199 proveniente dall’abbazia camaldolese di Sansepolcro (da un blog che linko mooolto più volentieri). Basta. Aggiungo soltanto che se potessi vivere in un museo, sceglierei il Bode. Sempre che il pacchetto comprenda anche una ditta di pulizie che si occupa di passare aspirapolvere e straccio.
Niente, dato che la mia preparazione in storia dell’arte è molto limitata, mi limito a postare un paio di foto scattate durante quest’ultima visita.
La scusa ufficiale per questa terza visita è stata la mostra temporanea sui pleurant realizzati in alabastro da Juan de la Huerta (1413-1462?) per la tomba di Giovanni di Borgogna, in trasferta da Dijon (qui un pdf sul monumento funebre dal quale provengono… riuscirò a linkare un pdf? vediamo).
Io e il mio prode accompagnatore MA ci siamo misteriosamente lasciati sfuggire questo dettaglio: quinta foto dall’alto (da un dipinto esposto nella sala). Visti i piagnoni, abbiamo vagato per più di un’ora per le sale del secondo piano.
Qui sopra due pie donne brabantine/borgognone provenienti dal corteo di una Deposizione conservata in una chiesa di Moncheux (1510-15 ca., legno di quercia secondo la targhetta, di noce secondo il catalogo Prestel).
Santa Kümmernis, Osnabrück, 1520 ca., legno di quercia… fino a prova contraria. “Una santa crocifissa… non sapevo… mai stato un esperto di vite di santi, in effetti”. Poi a casa scoprirò, con una ricerchina veloce su Wikipedia, che ha una storia molto interessante questa santa: praticamente non è mai esistita. È frutto di un fraintendimento iconografico. Un po’ come l’orso di Berlino è probabilmente un figlio di paretimologia. Da oggi Kümmernis (nella versione con barba) diventa la mia santa protettrice. Noi la chiamiamo Wilgefortis, o Vilgefortis. Checché ne dicano la targhetta del museo e la pagina tedesca di Wikipedia, non c’entra con Santa Liberata: santa vera, rappresentata in croce ma in realtà decapitata. Dice Wikipedia Italia:
L’episodio di Liberata crocifissa è un clamoroso falso. La giovane fu martirizzata “capitis abscissione”, cioè con un colpo di spada che le tagliò la testa, oppure fu pugnalata. Ci sono immagini che hanno indirizzato verso questa conclusione, ben più antiche delle icone di santa Liberata crocifissa. Il culto per santa Liberata ha finito per confondersi con quello per santa Wilgefortis, originariamente venerata in aree geografiche completamente diverse. Questa “contaminazione” iconografica ha generato nei fedeli confusione e disorientamento.
E comunque devo dire che mi inquieta non poco l’idea di non potermi fidare ciecamente delle targhette del mio museo preferito. A parte questo dubbio sul legno delle pie donne e la confusione tra Kümmernis e Liberata, ho trovato anche un errore di traduzione nel pannello bilingue che presenta il gabinetto degli specchi realizzato tra il 1712 e il 1715 da Johann Michael Hoppenhaupt (1685-1751) per il castello di Merseburg. Nel testo in inglese si parla di stile regency. “Ma che stile è?”, chiedo a MA. “Non saprei…”, risponde. “Vediamo cosa dicono in tedesco… Régence. Mah, poi a casa guardo”. Ecco, a casa, mentre io scolavo la pasta, Lupo mi ha poi scoperto che regency è praticamente lo stile impero (prima metà dell’Ottocento), mentre con régence anche in inglese si intende lo stile che caratterizza il periodo della reggenza di Filippo II di Borbone-Orléans, tra 1715 e 1723. Detto questo, godetevi qui un paio di immagini dal sito della vetreria che ha restaurato gli specchi del Merseburger Spiegelkabinett e qui (terza immagine dall’alto) un dettaglio dal sito del restauratore delle boiserie. Anche perché, a fare le pulci a un museo da pulcioso esperto della domenica, rischio di rendermi ridicolo. Ma cosa sarebbe questo blog se mi preoccupassi di più del ridicolo? O di meno? Mah.
Testa di chierico, Francia, 1450 ca., terracotta dipinta.
Giovanni apostolo (credo) addormentato, da un’Orazione dell’orto del Maestro di Rabenden, 1515 ca.
Johan Gregor van der Schardt, Busto del patrizio di Norimberga Willibald Imhoff il Vecchio, 1570, terracotta dipinta. Il mercante e collezionista d’arte tedesco è qui ritratto come intenditore di cose belle, mentre osserva un anello.
Ludwig Münstermann, Apollo, 1615. Di sicuro la rappresentazione del dio delle arti più atipica che abbia mai visto. Donchisciottesco. In origine, questa figura serpentinata con pancetta rotonda e mento pronunciato faceva parte dell’organo della chiesa del castello di Varel, in Bassa Sassonia, ed era dipinta: nell’Ottocento il colore è stato rimosso, dice la guida del museo. Tempo fa M. mi spiegava che al tempo avevano un’altra idea di conservazione e restauro. Dov’è che avevo letto che Delacroix diede una mano di nero allo sfondo della Dama con l’ermellino di Da Vinci?
Dettaglio del san Sebastiano di Martin Zünn proveniente dall’altare maggiore della chiesa parrocchiale di St. Jakob a Wasserburg am Inn (1638-39, legno di tiglio). Qui il santo, di solito rappresentato come un giovane discinto, ha le fattezze di Ferdinando III d’Asburgo. Assieme, il santo e l’imperatore della Lega cattolica avrebbero fornito (ai cattolici) una protezione più efficace contro la peste che imperversava durante la Guerra dei trent’anni.
Cristo dolente, Spagna, XVI secolo, terracotta dipinta.
Ecco, a un certo punto (più o meno in zona neoclassicismo) mi si è scaricata la batteria della macchina fotografica e, per vostra fortuna o sfortuna, non ho potuto scattare altre foto… Devo chiedere a MA, che è riuscito invece a fotografare fino a fine visita, che mi spedisca la balena con Giona che spunta da una grotta rocaille scavata nel piedistallo di un crocifisso francone rococò.
…
Da domenica scorsa, invece, sto ascoltando a ripetizione la sequenza Please Stop Dancing, Drive On, Driver e Too Drunk to Dream (The Magnetic Fields, Distortion), nel tentativo di superare il trauma della domenica cinematografica casalinga con il mio amore impossibile, che in origine prevedeva la visione di un film del suo Paese e uno del mio. Niente, ci siamo fermati al primo film. Il ragno se ne sta quatto quatto nel suo buco. Insomma, quatto si fa per dire. Per giorni ho avuto paura di tornare a casa, perché la mia casa era diventata la tomba del nostro amore… ma come mi vengono!? L’incertezza mi consumava, il senso di fallimento si alternava all’euforia della speranza e della perseveranza. “And take me to the airport. I need to be extremely far away”. Giovedì ho davvero pensato di andare via per qualche giorno. Oggi, finalmente, mi sembra di essermi abbastanza rappacificato con la cosa. Dopo lo snervante turno di ieri pomeriggio (fuori bonaccia, dentro tempesta), per qualche strano motivo (forse il colpo di scena finale con chiacchierata amabile?) mi sono calmato e oggi sono riuscito a dedicarmi ad altro. E non ho più nessuna voglia di ascoltare quelle tre canzoni. Né di pensare alle sigarette che abbiamo fumato assieme. Le bottiglie vuote e la vaschetta di hummus che mi ricordavano di domenica scorsa: eliminate. Non ho più voglia di scrivergli, quindi non devo più cercare di trattenermi dal farlo. Ma non vedo l’ora di rivederlo mercoledì in ufficio.