Qualche giorno fa questo articolo del New York Times ha sollevato un polverone e provocato un acceso dibattito tra gli amici Facebook di M. (polvere, fuoco e fumo… forse mi è sfuggita di mano la metafora). Per farla breve, l’articolo è stato scritto da un musicista di Melbourne che lo scorso aprile si era trasferito a Berlino con la sua band per incidere un album, come prima di loro “musicians like David Bowie and Nick Cave”. È finita che i ragazzi si sono fatti prendere la mano dal cazzeggio e, complice la ricchissima offerta ricreativa e l’atmosfera rilassata e un po’ slabbrata della città, non hanno concluso niente e se ne sono tornati in Australia senza album e con l’amaro in bocca.
Should pretty boys and discos / distract you from your novel…
Molti dei partecipanti all’acceso dibattito di cui sopra, letto l’articolo sono giunti alla conclusione che quindi è vero che Berlino è un circo senza capo né coda, una città di perdigiorno buona a nulla. M. ha cercato di spiegare ai suddetti amici che, sì, Berlino rischia di farti perdere di vista i tuoi obiettivi e ti permette di metterti in pausa anche a lungo (“In L.A., people actually get stuff done because you’ll go homeless if you don’t hustle. Here you can be superpoor for years and still live comfortably”), ma solo se tu glielo concedi, se ti mancano l’autodisciplina e la progettualità per metterti al lavoro tra una festa — e/o una mostra, una grigliata al parco, uno spettacolo teatrale, un reading, un tasting, una one-night stand — e l’altra o se la tua motivazione non è sufficientemente solida. Un rischio che corriamo tutti, ma il punto è che non ci sembra sensato dare la colpa alla città. O no? È un po’ come la storia dello stupro e della minigonna.
E infatti l’autore dell’articolo, Robert F. Coleman, si prende le proprie responsabilità. Il suo è un resoconto molto onesto: ammette di essere stato un cazzone e fa le dovute distinzioni: “Were there, we started to wonder, two different types of ‘creatives’ in the city — those who made a genuine living as established artists and those who, like us, were there merely as ‘creative tourists’?”. In questo paragrafo poi centra in pieno il problema:
[…] I did a bit of research. And I discovered that, in 2010, so-called creative industries accounted for 20 percent of Berlin’s G.D.P. — meaning that there were people in the city producing art. So how had they avoided being stymied by the temptations of the creative mecca? Perhaps, I began to think, it was because Berlin wasn’t a creative mecca for these artists; it was simply home. We were the interlopers, making a pilgrimage and getting lost in the party, while they were busy working in their studios. Perhaps to these artists, we were no better than all the other tourists who came, wringing the city of what they needed for a few days, weeks or months, getting drunk, then going home. While we were in Berlin, we noticed a growing animosity toward the so-called “EasyJet set” — tourists taking advantage of cheap international flights to join in Berlin’s party scene. Was this why I never met an artist who had a coming exhibition or showing or play? Because they didn’t leave their studios for every party? Because maybe they didn’t want to go out and meet the likes of me?
Tra l’altro, in due punti del suo resoconto dimostra di non aver capito come funziona Berlino e di essersi portato dietro un atteggiamento del tutto estraneo alla città; anglosassone, mi verrebbe da dire. All’inizio del suo articolo dice: “and our stove top was used more for storage than for cooking”, rivelando di non essersi accorto che a Berlino di norma si cena a casa e la cucina la si usa eccome. Se vieni a Berlino e mangi pizza consegnata a domicilio e noodle box come un americano ti perdi un sacco di usi e costumi locali: la cena di WG (“kein Zweck-WG!”), la VoKü da Hausprojekt, le infornate collettive di Plätzchen, la già citata grigliata al parco, la torta pomeridiana, gli spätzle fatti in casa e in chiusura l’assaggio di sigarette e liquori polacchi. Più avanti il musicista fancazzista dice: “A member of our band was incarcerated for 17 hours, receiving a 1,600-euro fine for damage to private property. There were fights and drunken backgammon sessions resulting in heads breaking windows”: qui, di norma, non si diventa violenti quando ci si ubriaca.
Coleman dice molte cose giuste — per esempio, che la “città stimolante” non è necessariamente il giusto stimolo per tutti — e nella parte finale dove racconta del rientro in Australia fa capire che forse la band non era poi così motivata e, come molti di noi, era più interessata al lifestyle dell’artista (odio usare “artista” per musicista) che non al fare arte. Lui comunque, a differenza degli altri membri del suo gruppo che sembra abbiano sotterrato la chitarra una volta tornati a casa, si è quantomeno portato a Melbourne una “idea di romanzo”.
Quanto è difficile, comunque, trovare la propria strada. E lavorare con metodo e dedizione. Io, sebbene non sia mai stato un festaiolo, da pigro ed escapista capisco bene il signor musicista/romanziere Coleman. E lo ringrazio per avermi fatto riflettere con questo suo articolo.
…
Da un paio di settimane (sono un lettore lentissimo!) sto leggendo The Europeans di Henry James: non il suo libro più riuscito, devo dire, ma me lo sto comunque godendo molto. Era da un po’ di tempo che non leggevo un libro con tanto piacere. E da ancora più tempo che non leggervo qualcosa del mio amato James: mi ero dimenticato quanto mi incantano lo sguardo dei suoi narratori e quel linguaggio così denso e sinuso, pieno di specchi. Anche se spesso e volentieri perdo il filo del discorso e non capisco più una sega. Per ri-farla breve, The Europeans parla di due fratelli, Eugenia e Felix, di origina americana ma cresciuti in Europa, che si trasferiscono nel New England da dei parenti. La motivazione del trasferimento non è chiara, ma sembra che Eugenia sia intenzionata a migliorare la propria situazione economica, e qui il narratore è bravissimo a dire senza dire, a insinuare. Il romanzo (breve) racconta soprattutto dello scontro tra due culture e modelli sociali: da un lato la sofisticazione e la gaiezza degli europei, dall’altro il puritanesimo e l’innocenza degli americani. Ovviamente, trattandosi di James, un’innocenza complicatissima. Sono arrivato a pagina 88.
Il giorno dopo aver letto l’articolo di Coleman, mi sono imbattuto in questo dialogo tra Felix, il frivolo europeo, e sua cugina Gertrude, tra i membri della sobria semi-campagnola famiglia Wentworth la più complicata, curiosa e vulnerabile al fascino della cultura.
Gertrude said nothing; she sat looking at the dahlias and the currant-bushes in the garden, while Felix went on with his work. ‘To “enjoy”,’ she began at last, ‘to take life — not painfully, must one do something wrong?’
Felix gave his long, light laugh again. ‘Seriously, I think not. And for this reason, among others: you strike me as very capable of enjoying, if the chance were given you, and yet at the same time as incapable of wrong-doing.’
[…] ‘What ought one to do?’ she continued. ‘To give parties, to go to the theatre, to read novels, to keep late hours?’
‘I don’t think it’s what one does or one doesn’t do that promotes enjoyment,’ her companion answered. ‘It is the general way of looking at life.’
‘They look at it as a discipline — that’s what they do here. I have often been told that.’
‘Well, that’s very good. But there is another way,’ added Felix, smiling: ‘to look at it as an opportunity.’
‘An opportunity — yes,’ said Gertrude. ‘One would get more pleasure that way.’
Ecco, non conta tanto quante cose stimolanti tu faccia (o dove tu le faccia) bensì come approcci le cose. Qui Gertrude vuole imparare a godersi la vita come fa l’adorato Felix. Coleman era venuto a Berlino per lavorare sotto l’influsso benefico della stella della Capitale Creativa ed è invece finito a godere smoderatamente e perdere la bussola. Molto probabilmente ha sbagliato approccio alla città. Comunque sia, alla fine è riuscito a capire meglio cosa vuole fare della propria vita. Bravo, Coleman! E brava Berlino.