Il Mitte, nella persona di Paola Moretti, ha di recente consigliato 5 film tedeschi usciti dopo il 2000.
Ringrazio Paola per la segnalazione di Die Fremde, che mi era sfuggito e mi sembra molto interessante. Io e Lupo rilanciamo segnalandovi i nostri film preferiti usciti al cinema da quando viviamo qui.
Napola – Elite für den Führer (2004) di Dennis Gansel, con lo stesso Tom Schilling che anche a Paola sembra piacere molto e con un giovanissimo Max Riemelt, che io ho apprezzato in Im Angesicht des Verbrechens, MA ha apprezzato in Freier Fall e Lupo sta apprezzando in Sense8.
Un proletario di Wedding, giovane promessa del pugilato, e il fragile figlio di uno stronzissimo Gauleiter si incontrano nel 1942 in un istituto d’elite per la formazione della futura classe dirigente nazionalsocialista. Il nostro amato Tom Schilling interpreta ovviamente il fragile figlio. Un bel drammone emo-storico.
Schultze gets the blues (2003) di Michael Schorr. Uno dei film più belli che abbiamo mai visto, tedeschi e non. Mi sono pure comprato la maglietta. E quando l’anno scorso a Moabit abbiamo incontrato per strada lo straordinario attore che interpreta il protagonista ci è venuto un mezzo infarto.
Si tratta di una tragicommedia incentrata su tre ex minatori della Sassonia-Anhalt in pensione. Mi spingerei quasi a dire che parla di una gioiosa conversione senile. Non vi voglio rivelare altro perché è un film che va guardato con gli occhi innocenti di un bambino.
Kirschblüten – Hanami (2008) di Doris Dörrie. Amore e morte, Baviera e Tokyo, genitori anziani e figli che hanno la propria vita e vaffanculo, riconciliazioni screzi malattie butō e ciliegi in fiore. Un gran bel film.
Halbe Treppe (2002) di Andreas Dresen. È forse il primo film tedesco che abbiamo visto qui a Berlino. I ricordi sono vaghi… Camera a mano, gente comune, coppie che scoppiano, una per noi al tempo inedita Frankfurt an der Oder (città quasi omonima ma molto meno celebre di Francoforte sul Meno) e un bravissimo Axel Prahl, che poi avremmo rivisto in Willenbrock, dello stesso regista, e in un paio di altri film.
La grande rivelazione del film è stata per noi questa Francoforte dell’Est, poi visitata diverse volte. Dal ristorante con terrazza dove pranzammo in occasione della nostra prima visita si vedeva l’Odra e, oltre al fiume, la Polonia, con le persone grandi come omini Playmobil che portavano a spasso il cane o stavano ferme a guardarci. Al tempo serviva ancora il passaporto per andare in Polonia. Che impressione quel confine costituito da un fiume per noi che venivamo da Udine, dove “al di là dell’acqua” voleva dire Pordenone e il Veneto. Quando questo blog era ancora ospitato su Splinder, la foto dell’header era stata scattata (da Lupo) proprio dalla terrazza di quel ristorante.
Una delle nostre primissime amiche tedesche era born and raised in Frankfurt/Oder. Faceva parte del gruppo di studenti di Europäische Ethnologie che abbiamo conosciuto nell’autunno del 2002 in una kneipe per punkettoni e rockettari di Oranienstraße. Di quel gruppo solo una persona vive ancora a Berlino: G., che tra l’altro ancora frequenta assiduamente quella kneipe. L’amica di Frankfurt/Oder l’abbiamo persa di vista invece. Di lei ricordo la sua risata contagiosa, i suoi amici skin, la volta che siamo andati a trovarla in ospedale dopo che l’avevano investita a Bersarinplatz e il suo accento divertentissimo.
Dorfpunks (2009) di Lars Jessen. Assieme a Verschwende deine Jugend (2003) di Benjamin Quabeck e Richy Guitar (1985) di Michael Laux, Dorfpunks è uno dei film “giovanilistici” che ci ha fatto vedere l’amica Anna. Qui si parla di punk di provincia nella Germania dell’Ovest degli anni ’80. Una specie di versione tedesca de La guerra degli Antò. Anche in questo caso poi il film è tratto da un libro. Tanta tenerezza.
Der Untergang (2004) di Oliver Hirschbiegel. Anche in questo caso c’entra Anna. I suoi amici antifa e antideutsch hanno discusso moltissimo di questo film appena sono cominciate a uscire le prime recensioni: è lecito mostrare il “lato umano” dei capi del nazismo?, si chiedevano. La loro risposta ovviamente era: no, per la collettività Hitler deve rimanere un mostro — Unmensch, si dice qui, ovvero un non-umano — e deve restare in isolamento nei libri e nei laboratori di ricerca accademici, altrimenti si rischia di indebolire progressivamente il sentimento antifascista. Io, ancora prima di vedere il film, obiettavo che non mi sembra un atteggiamento sano: è anzi forse più pericoloso considerare Hitler e compagnia bella dei mostri disumani piuttosto di confrontarsi con il fatto che noi umani siamo capaci anche di questo, ieri come oggi.
Gli ultimi giorni di Hitler nel bunker. Con un climax di violenza e follia che mette a dura prova lo spettatore e una famiglia Goebbels che fa venire i brividi, il vomito, febbre, diarrea e tutto uno sfogo cutaneo fastidiosissimo.
A seguire consigliamo la visione della videointervista alla vera segretaria privata di Hitler: Im toten Winkel – Hitlers Sekretärin (Austria, 2002) di André Heller e Othmar Schmiderer. Segretaria che nel documentario rivela, tra le altre cose, di aver scoperto nel dopoguerra, passando davanti a un monumento commemorativo dedicato alla Rosa bianca, di aver iniziato a lavorare per il Führer lo stesso anno in cui fu giustiziata Sophie Scholl, sua coetanea.
Sophie Scholl – Die letzten Tage (2005) di Marc Rothemund. Un film che a Lupo è piaciuto molto, a me meno. Parla della persecuzione giudiziaria dei fratelli Scholl, resistenti del gruppo della Rosa bianca, condannati a morte assieme a Christoph Probst nel 1943. Terrificante il giudice nazista Roland Freisler, interpretato da André Hennicke.
A Lupo sono piacuti anche Das Experiment (2001) di Oliver Hirschbiegel e Die Welle (2008) di Dennis Gansel: il primo è ispirato allo Stanford prison experiment del 1971 sugli effetti psicologici della condizione di carceriere e carcerato; il secondo a quest’altro esperimento del 1967 sulle dinamiche di opposizione e partecipazione nei sistemi di potere fascisti.
Der Baader Meinhof Komplex (2008) di Uli Edel. Dal regista di Christiane F. Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, un action movie in salsa extraparlamentare di sinistra. Da accompagnare alla visione di Stammheim (1986) di Reinhard Hauff.
Elementarteilchen (2006) di Oskar Roehler. Un Moritz Bleibtreu da bagnarsi le mutandine, secondo il mio parere di fan di Moritz Bleibtreu, e una Martina Gedeck straziante. Un film molto bello che mi ha ricordato perché non ho mai voluto leggere niente di Michel Houellebecq.
Führer Ex (2002) di Winfried Bonengel. Io non me lo ricordo bene questo film. Lupo aveva gradito molto. È tratto dall’autobiografia di Ingo Hasselbach, prima neonazista e poi co-fondatore di Exit Deutschland, associazione che aiuta gli ex estremisti di destra a uscire dal giro e rifarsi una vita.
Il film, oggi un po’ datato come regia e sceneggiatura, è ambientato nella DDR degli anni ’80 e racconta di due adolescenti ribelli che prima sognano di fuggire in Australia e poi finiscono, passando per la prigione, nella scena neonazi: ribelli pure loro ma parecchio carogne.
Alles auf Zucker! (2004) di Dani Levy. Per chi crede che i tedeschi non sappiano essere comici. Grandiosi i due attori che interpetano i coniugi Zucker: Henry Hübchen e, soprattutto, Hannelore Elsner, la quale recita anche in Kirschblüten – Hanami.
Classica commedia sulla tormentata riconciliazione tra due persone che non si sopportano, in questo caso condizione necessaria per ottenere un’eredità.
Il film ha vinto l’Ernst Lubitsch Preis 2004. Nella motivazione della giuria si legge: “[…] dopo decenni di astinenza, il film rilancia la commedia ebraico-tedesca che con Ernst Lubitsch visse il momento di massima fioritura nel secondo e terzo decennio del Novecento”.
Wolke 9 (2008) di Andreas Dresen. Ecco, diciamo che speravo che questa rappresentazione cinematografica della vita sessuale degli anziani, tanto decantata dai critici tedeschi e non solo, fosse un po’ più ottimistica. Non dico per forza un happy end tutto farfalle ed eiaculazioni, ma almeno non tanta amarezza e tanto dolore. Ma in effetti la vita è spesso così.
Gespenster (2005) di Christian Petzold. Vorrei aver visto più film di Petzold, ma questo per ora rimane l’unico. Prossimamente vorrei guardare Barbara (2012) e questa puntata di Polizeiruf (serie televisiva poliziesca) di cui si è tanto parlato.
Petzold è un regista autoriale vecchio stile… Molto cerebrale, alla francese… Per niente urlato, tutto appena accennato, abbastanza antinaturalistico, sterile… OK, pensandoci bene non serve davvero che guardiate Gespenster.
Meine Mütter – Spurensuche in Riga (2007) di Rosa von Praunheim. Come Werner Herzog, anche Rosa von Praunheim secondo me dà il meglio di sé con il genere documentario. In questo caso il tema è autobiografico.
Poco prima di morire, la madre di Rosa gli* rivela di non essere la sua madre biologica bensì di averlo preso in adozione da un orfanotrofio tedesco quando negli anni ’40 viveva con suo marito a Riga, al tempo occupata dai tedeschi. Il film racconta delle ricerche intraprese da Rosa dopo la morte della madre adottiva per scoprire chi fosse la donna che lo partorì. Nel farlo, tocca vari temi scottanti della storia tedesca degli anni ’40, tra cui lo sterminio quasi totale degli ebrei lettoni per mano delle famigerate Einsatzgruppen (vedi Le benevole di Jonathan Littell) e la questione dell’espulsione e della fuga dei tedeschi dai territori occupati dai nazisti nell’immediato dopoguerra.
Se non avete mai visto un film di Rosa von Praunheim, forse dovrei avvisarvi che non fa molte concessioni all’estetica. E se vi siete rotti le palle di temi nazi, guardatevi il suo documentario sul fumettista Ralf König: König des Comics (2012). Interessante soprattutto per la parte dedicata alla scena gay della Germania dell’Ovest negli anni ’70.
* Rosa è un nome d’arte che il regista si è dato all’inizio della propria carriera, ispirandosi al colore dei triangoli che identificavano gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti. Il nome riportato sul suo passaporto è Holger Mischwitzky. Nel corso della realizzazione di Meine Mütter il regista scopre di essere nato Holger Radtke.
Piuttosto dei due film sulla “ghetto life” di Neukölln e Wedding — Knallhart di Detlev Buck e Kroko di Sylke Enders — preferisco segnalarvi due documentari che trattano, meglio, lo stesso argomento, ovvero la vita dei giovani nei quartieri problematici di Berlino: Prinzessinnenbad (2007) di Bettina Blümner e Neukölln Unlimited (2010) di Agostino Imondi e Dietmar Ratsch.
Il primo ritrae tre amiche di Kreuzberg, una delle quali ha partorito l’immortale “Ich komme aus Kreuzberg, du Muschi!” e non ha paura di niente e di nessuno. Per chi sa il tedesco, su YouTube si trova una compilation di scene tratte dal film: perfetta per capire di che pasta siano fatte queste tre ragazze.
Neukölln Unlimited segue per qualche mese una famiglia di origini libanesi che vive nel mio quartiere e da oltre dieci anni rischia di essere espulsa dalla Germania. Il film si concentra sui figli, attivi nella scena hip hop e intenzionati a mantenere la famiglia con la propria arte.
Vaterlandsverräter (2011) di Annekatrin Hendel. Un altro documentario. I temi in questo caso sono la complessità delle cose umane, il rapporto con l’autorità, il peso del passato, il pelo sullo stomaco e l’amarezza.
Lo scrittore Paul Gratzik ci racconta della sua vita privata e professionale nella DDR e di come sia stato prima collaboratore della Stasi, fornendo informazioni su colleghi e amici, e poi a sua volta oggetto di indagine da parte della stessa. Da guardare dopo aver visto Le vite degli altri.
Anzi, sapete che vi dico? Già che ci siamo, chiudo direttamente con una sfilza di documentari, il mio genere preferito.
B-Movie: Lust & Sound in West-Berlin 1979-1989 (2015) di Jörg A. Hoppe, Klaus Maeck, Heiko Lange e Miriam Dehne. Partendo da filmati originali di un giornalista musicale inglese che ha trascorso gli anni ’80 a Berlino Ovest, il film racconta la scena new wave locale — dagli Einstürzende Neubauten alle Malaria passando per Farin Urlaub e Nena — e cattura molto bene lo spirito edonistico del tempo. Il film si chiude con WestBam (del quale io e Lupo abbiamo conosciuto la contabile!), la prima Love Parade e il sentore di una nuova epoca che avanza.
Man for a day (2012) di Katarina Peters. Si tratta della documentazione di un workshop tenuto in Germania dall’americana Diane Torr, nel corso del quale un gruppo di donne si crea un alter ego maschile e cerca di impersonarlo. Una riflessione sul maschio come costruzione sociale. Bellissimo.
Die Anwälte – Eine deutsche Geschichte (2009) di Birgit Schulz. Tre avvocati di (estrema) sinistra nella Germania dell’Ovest sessantottina e la loro evoluzione fino ai giorni nostri: uno diventerà avvocato del partito di estrema destra NPD, uno parlamentare verde, l’altro ministro degli interni del primo e secondo governo Schröder. Bellissimo.
Im Himmel, unter der Erde (2011) di Britta Wauer. Un ritratto corale del cimitero ebraico di Berlino-Weißensee: il rabbino, il falegname che costruisce casse da morto kosher, la famiglia che ha preso in affitto l’appartamento ricavato nella ex casa del custode, due ornitologi e i rapaci che hanno nidificato nel cimitero, i tanti visitatori che hanno qualche parente sepolto lì. Bellissimo.
Away from all suns! (2013) di Isa Willinger. Questo l’ho visto in televisione. Non sono sicuro sia uscito al cinema.
La regista ci mostra lo stato attuale di alcune splendide architetture costruttiviste degli anni ’20 a Mosca. Una ristrutturazione controversa, il rischio di demolizione di un condominio e la vita degli inquilini, tra i quali una militante della conservazione che cerca di salvare l’unico edificio realizzato su progetto di El Lissitzky e un artista matto. Bellissimo.
— UPDATE 22/08/2015 —
Un nostro nuovo lettore, che qui chiamerò PC (post-colonial), ci segnala una dimenticanza. Visto che si tratta di un film che ho amato anch’io, lo aggiungo subito alla lista. Grazie, PC!
The Invisible Frame (2009) di Cynthia Beatt, con l’immortale Tilda Swinton che percorre in bicicletta il Berliner Mauerweg, sentiero commemorativo ricavato sul perimetro della ex Berlino Ovest, ovvero lungo il vecchio confine tra la metà occidentale della città e la DDR. Una Berlino particolarmente silenziosa e per molti sicuramente inedita.
Attenzione: il film contiene diverse riflessioni generiche sulla condizione umana che lasciano un po’ il tempo che trovano. A parte gli scherzi, l’approccio della regista e della protagonista al Muro e alla Guerra fredda è più esistenzialistico che storico-politico. Certe tirate a me sono risultate troppo astratte, non particolarmente utili e poco condivisibili, ma si tratta appunto di un film molto personale, con un tono lirico-intimistico, quindi alla fine va bene così. Il film a me è piaciuto soprattutto per l’andamento lento e per lo sguardo malinconico, nonché per gli sparuti incontri casuali che avvengono qua e là lungo il sentiero. E com’è stato bello scoprire che Tilda Swinton (SPOILER!) parla tedesco! E vederla muoversi in luoghi che io e Lupo abbiamo più volte esplorato, a piedi e in bicicletta.
— UPDATE 21/07/2016 —
Scusate ma non posso non aggiungere alla lista Toni Erdmann (2016) di Maren Ade. L’ho visto ieri all’Fsk di Oranienplatz con G., la mia amica del cinema. Di film così ne esce uno ogni 5 anni. Una cosa tipo Schultze gets the blues, per rimanere nel campo del cinema tedesco. O come Les amants du Pont-Neuf, Reservoir Dogs, Chungking Express o La promesse dei Dardenne, per dare dei riferimenti a chi, come me, frequentava i cinema d’essai negli anni novanta del secolo scorso. Io ho pure fatto la maschera per diversi anni in un cinema d’essai. Per dire. Ricordo ancora molto bene la situazione malinconico-smaronante di stare lì nel mio gabbiotto con l’atrio e il corridoio vuoti (tranne che per la cassiera o il cassiere seduta/o davanti a me) e i suoni del film che uscivano ovattati dalle tre porte vellutate della sala di proiezione. Comunque sia, andate a vedere Toni Erdmann se esce in Italia. Oppure noleggiate il DVD, non so.