Post lungo e impegnativo che spiega il sostrato teorico di molta della fotografia di territorio contemporanea. Gli assassini naturalmente sono alla fine.
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Il fatto che queste operazioni di conquista e assoggettamento politico, culturale e economico si muovano da un centro unico verso un’infinita periferia comporta una conseguente vasta e generalizzata omologazione delle abitudini e delle idee in tutto il pianeta. Come reazione a questo fenomeno si va diffondendo una riscoperta, una nuova presa di coscienza, delle caratteristiche legate al proprio territorio di origine: valorizzazione dei prodotti locali, difesa del paesaggio e degli ecosistemi, rivalutazione di dialetti e tradizioni. Per quanto prepotentemente emerse di recente, queste correnti sono presenti almeno già dagli anni ’70: Alain Touraine, ad esempio, scriveva: “La storia e la geografia, l’attaccamento alla tradizione e alla terra, sono diventati il modo di pensare e di sentire di coloro che resistono al trapianto, talvolta ciecamente, talvolta, al contrario, chiedendo che l’industria vada agli uomini e non soltanto agli uomini dell’industria, che il territorio sia regolato invece di favorire soltanto le grandi concentrazioni industriali. La coscienza regionale e la difesa delle libertà locali sono il fondamento principale dalla resistenza alla tecnocrazia.”[1].
Il motivo per il quale ho ritenuto opportuno tratteggiare alcune delle linee di sviluppo che hanno attraversato il secolo appena concluso è l’influenza che queste hanno sul nostro modo di percepire il paesaggio, e questo effetto è evidente nel caso degli artisti, come chiarisce, ad esempio, questo pensiero del fotografo americano Ansel Adams illustrato da Claudio Marra: “Il discorso di Adams prende avvio dalla spartizione che la lingua inglese opera nell’area semantica da noi unificata sotto il termine «forma». Nel mondo ci sarebbero, allora, le “shapes” e le “forms”, cioè le forme naturali e le forme culturali, dove, stando alle aggettivazioni, è facile distinguere tra qualcosa che esiste a prescindere dall’azione dell’uomo (natura) e, al contrario, qualcosa che di questa azione è la logica conseguenza (cultura). Il mondo, prosegue Adams, è in sé caotico, le forme naturali (shapes) praticamente illimitate, ma illimitate, si badi bene, non per numero – perché in effetti, volendo, anche in natura è possibile circoscrivere un campionario base di forme – bensì per articolazione. Caratteristica propria della shape, sarebbe quella di non presentarsi mai, a noi, in maniera definita ma piuttosto sempre disponibile a quante si voglia interpretazioni, tutte differenti e tutte legali. Non esiste insomma, secondo Adams, un modo di essere proprio del mondo, un suo in sé stabilito una volta per tutte, tanto che appunto, ad un’”occhiata vergine” esso appare caotico e senza senso. Ma qui scatta per il nostro autore, il ruolo (antropologico ci verrebbe da dire) dell’artista, la cui azione dovrebbe essere tutta tesa a portar ordine in questo groviglio naturale: «… l’occhio del pittore o del fotografo porta la forma (form) nelle forme (shapes) circostanti».”[2].
Esprimendoci con le parole di Adams, possiamo dire che l’interesse della DATAR nei confronti dei fotografi risiede nella loro capacità di agire e riflettere nel campo delle forms. Conoscere le forme culturali che regolano il nostro modo di vedere il paesaggio attraverso l’esempio degli artisti per quest’ente è una necessità, che diventa più urgente negli anni ’80, per i grandi mutamenti economici e sociali in corso. Questa esigenza si fa più importante se teniamo conto della confusione che investiva l’oggetto dell’indagine della Mission. Di queste complessità e difficoltà di definizione possono darci un’idea queste parole dell’Enciclopedia Einaudi: “è un termine polisemico, e ognuno avrebbe il dovere di precisare che cosa intende per “paesaggio”. … Il paesaggio, come del resto lo spazio, da qualche anno somiglia a quelle locande dove si trova solo ciò che uno vi porta” [3]. La DATAR cerca dunque delle immagini che testimonino soprattutto la nostra esperienza quando ci confrontiamo con i luoghi (e più strettamente con il loro aspetto); ambito nel quale in questi anni stavano nascendo riflessioni di rilievo.
I geografi nel tentativo di fondare una scienza del paesaggio cercano conseguentemente di definire una concezione del paesaggio che si basi esclusivamente sull’aspetto fisico del territorio, facendo ricorso alla fotografia aerea da cui ricavare successivamente mappe di piccola scala, e che si fondi sul vocabolario classico degli ecosistemi. Questa prospettiva che esclude le relazioni sociali col territorio per quanto contemporanea della Mission non è quella a cui fa riferimento la DATAR, più aderente all’idea per cui ”il termine appare carico di connotazioni culturali e più in particolare artistiche: è la natura vista attraverso lo sguardo umano, trasformata dall’azione e dall’occhio dell’uomo.”[4] Il paesaggio dunque è la realtà assieme allo sguardo su questa realtà, e lo sguardo ha pari importanza della realtà stessa. Ancora più chiaramente: “secondo Pierre George (1974) … per paesaggio si intende:
1. lo scenario che è offerto dalla natura all’insediamento e all’attività dell’uomo;
2. l’insieme di forme e colori che con proprio statuto si effettua nell’arte, ed inoltre è oggetto della descrizione critica, teorica, culturale;
3.il genere di vita che è caratteristico di una civiltà, con tutti i suoi propri effetti generali e particolari.”[5].
Studiare, fotografare, vivere il paesaggio è quindi mettere in relazione i caratteri fisici visibili all’occhio con la nostra sensibilità e cultura e con la nostra identità sociale. Il paesaggio, modificatosi e arricchitosi nei secoli dall’intervento umano che stratificandosi ne ha fatto un testimone della nostra storia, è percepito anche come un luogo che conserva, e in cui quindi cerchiamo di recuperare la nostra identità; ma questa funzione corre il pericolo di smarrirsi, è il fenomeno della perdita del paesaggio che ci fa supporre che questo più che trasformarsi stia scomparendo. Minacce visibili come la devastazione delle cave, delle miniere, dei residui industriali e, ancora più profonde, invisibili come l’inquinamento o la debiologizzazione dei terreni tramite monocolture e concimi chimici inducono molti a pensare che il paesaggio stia irreversibilmente morendo.
L’industria turistica trasforma interi paesaggi per renderli spettacolari e soddisfare così la ricerca di una bellezza estetica dei territori, promuove la diffusione e l’”invenzione” di oggetti etnici per saziare il nostro interesse per un’identità originale e meno compromessa con la modernità della nostra. Il turismo, con l’industria, è uno dei settori che maggiormente spinge perché il sistema delle infrastrutture venga costantemente sviluppato e aggiornato. La costruzione di reti di trasporti, strutture ricettive e commerciali, ormai necessariamente pianificate a livello statale se non sopranazionale, è il punto di partenza delle due riflessioni che seguono.
La prima, inserita in un contesto più ampio, ci è offerta da Jean Baudrillard: “Producendo strutture fortemente centralizzate, sistemi urbani, industriali e tecnici ad alta definizione, concentrando spietatamente i programmi, le funzioni, i modelli, si trasforma tutto il resto in rifiuto, in cascame, in residuo inutile. Mettendo le funzioni superiori in orbita, si trasforma il pianeta stesso in rifiuto, in territorio marginale, in spazio periferico. Costruire un’autostrada, un ipermercato, una metropoli significa trasformare automaticamente tutto l’ambiente circostante in deserto. Creare reti di comunicazione ultrarapide significa trasformare immediatamente lo scambio umano in residuo.”[6].
La seconda ci è data dall’antropologo Marc Augé che scrive: “Se un luogo può definirsi identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo.”[7] L’autore aggiunge che i luoghi vanno sparendo, anche se la loro scomparsa non è mai definitiva, mentre i nonluoghi si vanno formando e rafforzando anche se non si compiono mai in una forma pura; questi ultimi tuttavia rappresentano l’epoca: sono luoghi di passaggio, in cui l’individuo passa confondendosi nella massa, senza potersi relazionare né con le altre persone in transito, né con l’ambiente che non offre punti di riferimento. L’autore include nell’elenco: le vie aree, ferroviarie e autostradali e di conseguenza aerei, treni e auto e gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, gli spazi per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e per ultima la grande rete di comunicazione via cavo e satellitare.
Se Augé accenna ai rapporti tra individuo e “luogo” un’analisi più approfondita in questo senso viene condotta dall’architetto e antropologo italiano Franco La Cecla. Egli nota che nelle società cosiddette primitive l’abitare costituisce una forma di conoscenza: in queste culture la comprensione dello spazio, dell’ambiente, del luogo in cui si vive, non è mai asettica e oggettiva, ma propria, personale, in stretta relazione con il territorio. La percezione di se stessi si definisce in rapporto al proprio ambiente, creando un profondo senso di appartenenza ad esso e insieme una profonda conoscenza di ogni suo aspetto; l’abitare forma quindi una consapevolezza definita “mente locale”[8]. Pensare, sentire, conoscere variano di luogo in luogo, così come l’ambiente nasce e si ridefinisce in rapporto a chi lo abita. Nel territorio che ci è noto ci orientiamo, al di fuori di esso ci perdiamo, ma anche l’atto del perdersi acquista un valore importante come momento di confronto, in cui possiamo raggiungere un più alto grado di conoscenza per quel che riguarda noi e il nostro territorio d’origine. La Cecla aggiunge però che dal XVII secolo, in Europa, la volontà da parte degli stati di controllare, pianificare, razionalizzare ha reso la pratica dell’abitare non più locale ma oggettiva, valida in qualsiasi luogo, omogenea. La difficoltà sempre maggiore che i cittadini hanno riscontrato nel potersi relazionare personalmente con il proprio luogo ha portato nella modernità ad un sentimento di indifferenza territoriale, di estraniamento cronico tra gli abitanti e il loro territorio, ad una distrazione permanente rispetto al proprio luogo; questo induce ad un nuovo effetto di perdita, ma ben diversa da quella sopra descritta, perché ci si perde nell’ambiente in cui si vive, ci si sente spaesati e stranieri nella propria città. La nostra capacità di abitare è offuscata, non sappiamo integrarci nel nostro ambiente, non riusciamo a coglierne i tratti distintivi, stentiamo a ritrovarvi la nostra identità.
Gli argomenti accennati si collegano profondamente ai temi che emergono dai lavori svolti durante le campagne della DATAR. Nello sfogliare i portfolio degli autori ci accorgiamo che gli artisti hanno saputo interpretare profondamente le caratteristiche del periodo, anticipando in certi casi con la loro opera certe riflessioni che gli studiosi hanno pubblicato qualche anno dopo[9].
Vorrei ora riportare due testimonianze in questo senso, di fotografi entrambi francesi: Albert Giordan e Raymond Depardon.
Il primo lavora per la DATAR nel 1984 e il suo campo di indagine sono i luoghi di consumo e i nuovi spazi commerciali. Le sue fotografie risultano essere una repertorizzazione di nonluoghi; utilizzando il bianco e nero, Giordan compone dei collages in cui gli incroci stradali, gli ampi parcheggi vuoti e le lunghe pareti dei prefabbricati sono dominati da scritte e manifesti pubblicitari che immaginiamo squillantemente colorati; nonostante i simboli siano sovrabbondanti nelle sue immagini nulla ci permette di identificare chiaramente i luoghi in cui sono state scattate, ed anzi, anche se talvolta compaiono indicazioni stradali con nomi di località francesi la prima impressione è quella di compiere un viaggio nelle ben distanti periferie statunitensi.
Il progetto di Depardon si distingue dagli altri lavori eseguiti nell’ambito della Mission per il forte carattere autobiografico che lo contraddistingue; l’autore decide infatti di svolgere il suo incarico nell’azienda agricola di famiglia nella piana di Maĉon. L’autore per inseguire il suo sogno giovanile di fare il fotografo si trasferisce all’età di sedici anni a Parigi lasciando la fattoria di famiglia; questo sradicamento precoce dalla sua terra, nonostante definisca la capitale la sua città, lo fa sentire fuori posto ovunque, Parigi compresa, sempre disorientato e sempre ansioso di viaggiare in cerca di un luogo che gli permetta di sentirsi più “a casa sua”: egli definisce questa sensazione erranza[10]. In qualche modo approfitta dell’occasione che la DATAR gli offre per ritornare nella piana di Maĉon, dove è nato, e cercare di elaborare questo trauma da distacco, recuperando la memoria e l’appartenenza al paesaggio agricolo e familiare della sua giovinezza; completerà questo progetto così importante per lui con la pubblicazione di La ferme du Garet[11]. Ma questo processo di riappropiazione del suo passato resterà incompiuto poiché negli anni trascorsi tra la sua partenza e l’incarico della Mission il suo paesaggio è stato stravolto principalmente da due elementi che hanno avuto poi ripercussioni su tutto il territorio circostante: l’autostrada Parigi – Marsiglia e la linea del TGV che compie lo stesso tragitto. È per questo che le sue immagini testimoniano sia ciò che era, sia la sua successiva trasformazione; da un lato ci sono infatti le vecchie immagini ingiallite scattate sia dal fotografo del paese e appese alle pareti della fattoria che da lui stesso nei suoi primi esperimenti, dall’altro, forse per sottolineare maggiormente il cambiamento, le immagini prodotte per la DATAR, a colori e in grande formato. È anche significativo che la selezione d’immagini che testimonia il percorso di questo fotografo nella sua ricerca di un’identità locale che lo rassereni si apra con una fotografia aerea che ritrae integralmente la piana di Maĉon, segnando in questo modo i contorni precisi della sua ricerca, confermando a noi e a se stesso che quello è il territorio che lo ha segnato.
[1] Alain Touraine, La société post-industrielle, Paris, Editions Denoël, 1969 (tr. It. Di Rolando Bussi, La società post-industriale, Bologna, il Mulino, 1970), p. 63.
[2] Claudio Marra, Paesaggio e rappresentazione visiva “Oggetto” o “ funzione”: due possibilità per la fot ografia di paesaggio, in AA. VV., Paesaggio Immagine e realtà, Milano, Electa, 1981, pag. 337. Questa riflessione di Adams si trova nel suo libro Camera and Lens, New York, Morgan&Morgan, 1970.
[3] Chantal Blanc-Pamard e Jean Pierre Raion, Paesaggio, in Enciclopedia Einaudi, Vol. X, Torino, Einaudi, 1980, pag. 320.
[4] AA. VV., Enciclopedia Einaudi,op. cit., pag. 320. A questa stessa definizione ricorre anche Eleonora Fiorani nel suo libro Il mondo senza qualità per una geo-filosofia dell’oggi, Milano, Lupetti – Editori di Comunicazione, 1995, pag. 11.
[5] Pierre George, L’ère de techniques, constructions ou destructions?,Paris, PUF, 1974, (tr. It. La geografia nella società industriale, Milano, Franco Angeli, 1976) citato in Eleonora Fiorani, Il mondo senza qualità per una geo-filosofia dell’oggi, Milano, Lupetti – Editori di Comunicazione, pag. 14.
[6] Jean Baudrillard, L’illusion de la fin, Parigi, Edition Galilée, 1992, (tr. It. Di Alessandro Serra, L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Milano, Anabasi, 1993), pagg. 108-109.
[7] Marc Augé, Non-lieux, Parigi, Seuil, 1992; (tr. it. di Dominique Rolland, Nonluoghi Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1992), pag. 73.
[8] Franco La Cecla, Mente locale, Milano, Elèuthera, 1993. L’argomento qui trattato dall’autore si completa nell’altro suo saggio: Perdersi L’uomo senza ambiente, Roma, Laterza, 1988.
[9] Che le riflessionida noi riportate sopra fossero ben presenti anche all’interno della Mission Photographique è provato anche dal saggio di Augustin Berque, Les mille naissances du paysage, in François Hers e Bernard Latarjet (a cura di), Paysages Photographies En France les années quatre-vingt, Paris, éd. Hazan, 1989, pagg. 21-49; soprattutto nei pensieri riportati nelle pagine finali del suo testo.
[11] Raymond Depardon, La ferme du Garet, Paris, Editions Carré, 1995
Se una larghissima parte dei fotografi di paesaggio e architettura fa riferimento a queste riflessioni, quali tra questi ne sono influenzati in maniera evidente?
Anglofoni: Lewis Baltz, Robert Adams, Frank Gohlke, John Davies, John Gossage.
Francofoni: Jean Louis Garnell, Dominique Auerbacher, Gilbert Fastenaekens, Jean Marc Bustamante.
Germanofoni: Bernd e Hilla Becher, Thomas Struth, Petra Wunderlich, Candida Höfer, Joachim Brohm.
Italiani: Guido Guidi e Gabriele Basilico.
Altri: Lars Tunbjörk, Naoya Hatakeyama, Toshio Shibata.
Lupo
PS: penso sia facilmente intuibile: anche il testo scritto in piccolo è mio, ma non è stato pensato per il blog.