Che dire dell’alcolizzato che oggi pomeriggio mi si è seduto vicino sulla panchina rossa al centro del parco, sotto quell’albero gigantesco, e si è messo a parlare, costringendomi a chiudere il libro, e non la smetteva più? Ex programmatore informatico, scalzo e con la faccia e i capelli sudati da giorni. Dopo un paio di minuti ho smesso di pensare che era da un bel po’ di anni che non mi succedeva di finire nella rete di uno di questi pescatori di orecchie — una volta mi succedeva spessissimo, poi ho imparato che faccia fare per scansarli; ho smesso di maledirlo e mi sono messo ad ascoltare.
Alcune cose che diceva avevano senso, altre meno. Ho trovato molto interessante la storia della sua compagna di scuola di origine italiana, prima “traduttrice europea” e poi impiegata in una grande azienda: da traduttrice gli ha insegnato che una frase va letta fino al punto, poi vanno individuati i verbi e a quel punto la traduzione viene da sé. Lui le ha insegnato che un libro va letto tre volte: la prima lo leggi e sottolinei con l’evidenziatore, la seconda leggi le sottolineature e la terza lo capisci. “Ma devi prenderti il tuo tempo, altrimenti tanto vale che lasci perdere e leggi un altro libro”. Molto bella la storia del mulino di Sanssouci e degli olandesi e dei russi chiamati in Prussia dal vecchio Fritz; molto triste la storia del suo esame da programmatore, con il quinto membro della commissione — la commissione era rappresentata da cinque tappi di metallo spinti un centimetro nella sabbia davanti alla panchina rossa sulla quale sedevamo — che andò su tutte le furie quando lui rivelò che il suo programma era open source. Alla fine del racconto, ha calciato il quinto tappo in mezzo al prato.
In alcuni momenti mi faceva paura, soprattutto quando interrompeva il flusso di parole per qualche secondo e mi fissava con quei suoi occhi liquidi. Non aspettava un mio cenno di assenso o che so io; mi guardava e lasciava scorrere nella sua testa un paio di pensieri indicibili. Quando parlava di Berlusconi sorrideva sdentato, con un sorriso buono. La sua proposta, meno sottile del promoveatur ut amoveatur suggerito qualche giorno fa su Facebook da un mio amico, è di esiliarlo in Australia “con quelle catene… ai piedi” e gettare la chiave in Canada. Dopo una parentesi visionaria sull’energia solare e un breve affresco circense con apparizione di Charlie Chaplin e di due acrobati in carne e ossa che si sono messi a esercitarsi sul prato a qualche metro da noi, è tornato a parlare di Berlusconi.
Il tutto è durato circa venti minuti. Al quindicesimo minuto il sole mi si è piantato negli occhi. Mi sono quindi acceso una sigaretta e ho aspettato il momento giusto per accomiatarmi perché mi dava molto fastidio ascoltarlo con il sole negli occhi. Verso la fine della mia sigaretta, il mio compagno di panchina ha disegnato nella sabbia con un dito un 25% e ha detto che a noi italiani non resta che fare un referendum o emigrare. “E da emigrati ci sono tante cose che potete fare, ma lo sai anche tu”.